venerdì 24 aprile 2015

Mani

Quando Cara gli chiese se la amasse Charlie rispose “non lo so”.
Quella risposta dopo anni di amore e speranza crollò sulle spalle di lei come una grandinata di sassi appunti trafiggendo corpo e spirito. Una risposta inaspettata, surreale, violentissima.
Cara iniziò a piangere lacrime di piombo e la vista appannata aumentò la confusione tutt’intorno. Anche Charlie piangeva, nonostante tutto.
Il  mondo le sembrò finito, per sempre, in quel preciso attimo e Charlie la stava trascinando sul bordo di un baratro spaventoso. Cara voleva solo precipitare.
Le tentò tutte,  ossessionatamente cercò di trovare l’equilibrio del funambolo per non cadere ma quel “non lo so” fu la forza di gravità inarrestabile e malefica.
Cara non era nel suo paese. Sarebbe dovuta tornare dopo alcuni giorni eppure una mano divina, forse quella del suo Angelo custode le diede le ultime forze necessarie per preparare la valigia e salire su quel treno. L’indomani.
La notte prima dell’addio dormirono comunque insieme, mano nella mano, come sempre. Non riuscivano ad addormentarsi altrimenti. Lei avrebbe dovuto odiarlo invece anche nel sonno lo accarezzava. Poche ore buie li dividevano dal loro ultimo saluto.
Il pianto disperato che strozzava la gola, lo stomaco vuoto e i nervi spaccati in mille pezzi le avevano portato una nausea assassina ed ora ogni respiro era un conato. Stava cedendo, quel suo corpo esile. Troppo dolore. Charlie non era più un amico, un complice, un amante. Charlie era un’ombra distesa sul letto i cui contorni venivano esaltati dalla luce della luna che filtrava attraverso gli scuri. Charlie era un profilo, un disegno, una visione. Charlie ora era il nulla.
Quante domande, quante poche risposte. Quanti dubbi coperti ed irrisolti. Quanto silenzio tra di loro, oramai.
Cara svenne.
Charlie con lei.
Fu la prima a svegliarsi, all’alba. Lo guardò ancora, si voltò, scese dal letto e a piedi nudi lo raggiunse al lato suo. Per l’ultima volta passò le dita tra i suoi capelli e sussurrò al suo orecchio “ Charlie, devo andare.”
Lui aprì gli occhi, si guardarono per un soffio di secondi.
Scesero al piano di sotto. Cara corse in giardino, si appoggiò al tronco di un ulivo. Non si reggeva in piedi e il terrore nel cuore era come un cappio al collo.
Charlie restò in cucina e abbandonato su una sedia ricominciò un pianto denso ma silenzioso.
Un amico di Charlie offrì un tè a Cara. Era pallida, fragile, infreddolita nonostante fosse piena estate ed il sole a quell’ora del mattino era già molto alto. Lei lo bevve. Due sorsi. Era alla menta e a lei fa schifo la menta ma non riuscì a dire di no. Le mancava anche il più sordo filo di voce. Si accorse di avere la febbre molto alta.
Charlie si offrì di accompagnarla alla stazione ma lei rifiutò. Il cuore non avrebbe retto un addio davanti ad un treno. Quel treno che l’aveva sempre portata da lui stracolma di amore.
“Cara è tardi, scusami” le disse l’amico. “Ti porto io”.
Cara ormai non parlava più. Chiuse lentamente le palpebre come a dire “andiamo” ma non fiatò.
Mentre l’amico caricava le valigie in macchina Charlie e Cara si guardarono un’ultima volta, si avvicinarono, si abbracciarono, si baciarono. Labbra salate intrise di lacrime.
“Ci ritroveremo, Cara. Deve solo passare del tempo”.
“Promettimelo Charlie, ti prego”.

Cara affrontò un viaggio di tredici ore senza più sentirlo.
Le sarebbe potuto accadere di tutto, nelle condizioni in cui si trovava.
Tornata nel suo paese le corsero incontro due braccia potenti che ebbero la prontezza di sorreggerla. Svenne immediatamente.

Cara e Charlie non si sono mai più incontrati.
Avevano condiviso l’amore che sognavano da tempo ma ora questo amore era finito.
Nessuno dei due capì mai il perché.
Cara tentò di capirlo con tutte le sue forze ma Charlie mostrò sempre troppa paura: forse non avrebbe mai voluto e dovuto prendere quella decisione, forse ora si vergognava, forse sapeva di non riuscire a guardarla di nuovo negli occhi che parlavano senza che la bocca proferisse parola. Forse ora lo sguardo di Cara gli avrebbero solo fatto tanto male e lui non poteva sopportarlo.
Anima troppo fragile, corpo troppo debole.

Cara lo amava talmente intensamente che decise di lasciarlo volare libero nel suo cielo. Libero di cadere, sbagliare, rimpiangere o libero di scappare via.
Lei ora rimaneva al suo posto.

Eppure, negli abissi delle sue sensazioni, una voce le sussurrava timidamente che il suo Charlie ancora la amava e che nessuno avrebbe potuto separare quelle mani impazienti di stringersi forte poco prima del sonno.

lunedì 13 aprile 2015

Crepe sul soffitto

Ecco, io non ho mai realmente compreso la fobìa- del- vicino- di- casa. Tutti l’abbiamo, ammettilo. Se ce lo ritroviamo in ascensore, poi, quei tre piani quantificabili in una manciata di poveri secondi sono a dir poco una prova decisamente imbarazzante e fastidiosa da affrontare. Si guarda a terra, poi in alto come se il soffitto triste e scorticato dell’ascensore vecchio di 40 anni che il condominio non vuole cambiare, con quella luce fredda al neon, impossibile da fissare, possa rivelarci il futuro, poi si muovono le chiavi come se fosse la prima volta che entriamo a casa  e quindi non abbiamo ancora memorizzato la giusta manovra che aprirà la porta, si guardano le scarpe, una sbirciatina allo specchio ma non troppo altrimenti sembriamo vanitosi e la vergogna non farebbe che aumentare l'imbarazzo generale, e alla pulsantiera. Un respiro tipo sospiro come a dire "che giornataccia, sono assorto nei miei pensieri, non dirmi nulla", un lieve movimento con la bocca che tira le guance all'insù, impercettibilmente, dando vita ad un timido sorriso che nasce un pò spontaneo e un pò obbligato e l'immancabile frase di rito "scusa non ricordo a che piano vai....ah ok, al quarto, io al terzo, allora scendo prima io..." segue sorriso imbarazzato perché questa domanda è sempre la stessa e la risposta è sempre la stessa e mai nessuno dei due memorizza il piano dell'altro: fenomeno paranormale che la dice lunga. Facciamo di tutto per non iniziare una conversazione e per non incrociare gli sguardi. Quasi rimpiangiamo la nonna o, ancora peggio, la vecchia zia che a tutte le feste comandate ci chiede se abbiamo il fidanzatino o la fidanzatina. Se poi i piani da condividere sono almeno 5 i secondi si allungano e preferiamo fare le scale anche se abbiamo l’enfisema, fermandoci ad ogni pianerottolo, perché il fiatone di chi prende la macchina per ogni spostamento pur di non percorrere 200 metri a piedi ha la stessa violenza di un calcio nello stomaco dopo il cenone della vigilia, a panza piena. Ma fai lo sportivo, quello che le rampe le sale a falcate di due gradini alla volta e anche con 4 buste della spesa, sai quelle di plastica reciclata che fa tanto “salviamo l’ambiente” ma che poi basta l’angolo della confezione delle uova per spaccarle esattamente a metà, senza concederti quell'accenno di attimo per tentare di salvare almeno i pomodorini ciliegini che una volta che iniziano a rotolare, lo sappiamo, è davvero la fine. Scivolano 80 euro di spesa giù per le scale e le banane sul pianerottolo ormai si sono già ammaccate in men che non si dica eppure le avevi toccate tutte, al supermercato, per prendere le più dure. Ci avevi messo mezz'ora. Una mezz'ora utilissima buttata al vento. Il barattolino di yogurt che puntualmente si spacca e poi quindi devi mangiarlo il giorno stesso anche se non ti va. E proprio nel momento in cui ti chini a 90 mormorando strane parole simili a parolacce appena inventate, sperando che nessuno in quel momento apra la porta, con la borsa che scivola dalla spalla, le chiavi che si sono incastrate ad un filo della giacca tirandolo e pensi No ti prego la giacca no l’ho pagata troppo, il cellulare la cui tastiera è stata per errore attivata dai movimenti maldestri e che ora sta chiamando un numero fatto di asterischi e punti esclamativi, continui la tua ascesa calibrando i passi con estrema fatica perché il prossimo passo sbagliato potrebbe squarciare la seconda busta mentre la vena della fronte gonfiatasi nel momento del disastro in cui ti sei piegato e tutto il sangue è andato alla testa che ora ti gira e vedi i puntini neri, sta lentamente riassorbendosi portando via dal tuo viso quel colore viola blu tipico di chi sta troppo a testa in giù . Questa è una fobìa. Analizziamola: non sappiamo proprio cosa dire, dopotutto chi ha un argomento che duri 3 o 4 piani? Pensaci.Impossibile. Oppure ci sta antipatico il vicino, ci sentiamo in colpa perché aspettiamo che vada a letto per buttargli nel giardino la sporcizia del nostro balcone, ogni sabato invitiamo a casa gente che urla e abbiamo paura di un suo rimprovero, il nostro cane abbaia troppo, i suoi bambini con i loro pianti isterici ci distraggono tutto il giorno dalla pace che vorremmo? Quali sono le reali motivazioni che ci spingono ad avere la paura del vicino di casa? Forse all’ultima riunione di condominio gli abbiamo dato dell’idiota o sappiamo che la moglie riceve a casa un pò troppe visite ma non possiamo osare.
Scendi dalla macchina e se vedi che anche lui sta scendendo e sta dirigendosi verso il portone, rientri nella tua utilitaria e fai tutto quello che non faresti mai tipo decidere di fare le pulizie in quel preciso istante magari svuotando il posacenere pieno di carte di merendine, sigarette e scontrini oppure dai un’occhiata ai sedili posteriori e decidi di sistemare quelle due buste che lascerai lì o magari sistemare il santino che tieni incastrato nello specchietto retrovisore e che cade ad ogni curva. Tutte azioni assolutamente inutili per ingannare il tempo, dar modo a lui di arrivare all’ascensore da solo e raggiungere il suo piano. Via libera. Finalmente puoi abbandonare le finte mosse utili all’interno del tuo veicolo e correre verso le scale. Oltretutto te la stai facendo sotto ma questo ed altro pur di non sentir la costrizione di dire “buonasera tutto bene? “si, grazie e lei?” “si si tutto bene, freddino oggi….eh si la primavera sta tardando” “si in ufficio tutti malati, un disastro” “eh si”. Gelo. Ecco, è quel gelo che segue ad una conversazione tanto rapida quanto formalmente disinteressata e di circostanza che ci inibisce.
Poi però ci piace dire che siamo socievoli, aperti e genuini e che amiamo parlare col primo che incontriamo e magari aiutarlo ad attraversare la strada e “non sai ho passato un’ora con una vecchietta sulla panchina, bellissimo, mi ha molto arricchita. Dovremmo farlo tutti. Fa bene al cuore, all’anima, sono tornata a casa che mi sentivo proprio bene, in pace col mondo. Povera vecchina chissà com’era sola…” - “ si guarda anche io sono aperta e solare, molto sensibile e empatica, mi piace ascoltare le persone e fare beneficenza, a proposito, vado in Africa dai bambini di colore distrutti da malattie e fame. Vado ad aiutarli, solo lì mi sento utile. Non vedo l’ora, vado con la parrocchia e farò tante foto. Sento nel cuore questa solidarietà con il prossimo, sento di doverlo fare. In Africa.”.

Dopotutto vado fin lì perché credo che nel mio condominio tutti stiano bene. Credo.



Non si scappa mai dai luoghi, né dalle persone, né tantomeno dalle circostanze. Si scappa da sé stessi.
( A. Merini)